Uno dei film italiani più famosi del dopoguerra, Ladri di biciclette di Vittorio De Sica, ha un finale tristissimo. Impegnato a sfamare la sua famiglia in una Roma post-bellica ridotta in miseria, un uomo vede la sua sopravvivenza in pericolo nel momento in cui gli rubano la bicicletta. Senza quella, è destinato a perdere il suo prezioso lavoro. Senza quella, la sua famiglia morirà di fame.
Dopo una serie di ricerche affannose e vane, con il film che volge alla fine, disperato, l’uomo ruba la bicicletta di un compagno di sventura. Inseguito dalla folla, viene subito acciuffato, strattonato ed umiliato davanti al giovane figlio. La cinepresa si sposta poi sul ragazzino in lacrime, con in mano il cappello calpestato del padre. Quando lo vede, l’agguerrito proprietario della bicicletta ci ripensa e in tono burbero intima alla gente di lasciarlo andare.
L’ultima inquadratura del film fa vedere la dolorosa espressione di sconfitta del padre mentre si avvia senza meta tra la marea di persone, il ragazzino sconsolato al suo fianco. Provando a derubare un altro uomo, ai suoi occhi lui ha violato il dovere fondamentale di un padre di insegnare la distinzione tra il bene e il male. E persino in quello, aveva miseramente fallito.
Visto dagli Italiani, nel pieno sbandamento morale e fisico del 1948, questo finale deve aver posto una domanda devastante. Quale esempio, quale lezione, potevano dare ai propri figli coloro che avevano patito la guerra? Quale senso dell’onore e della dignità potevano loro, i genitori, pretendere o sperare di impartire?
Dopo tutti i compromessi meschini, le dure privazioni del passato recente, come avrebbero potuto gli Italiani dare ai propri figli un futuro più innocente ed assicurare che questo sordido incubo venisse cancellato per sempre?
E più nell’immediato come avrebbero sfamato la famiglia il giorno dopo?
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Nei decenni successivi la situazione italiana migliorò notevolmente. Il boom economico degli anni 60,70 e 80 portò una prosperità straordinaria a molta parte del paese. Per quasi due generazioni un interludio di benessere regalò lavoro, un periodo senza emigrazione e uno stato sociale che permise alla maggioranza di vivere una vita decente, se non agiata.
Ma nel 2007, 60 anni dopo l’uscita di Ladri di biciclette, in attesa della nascita del nostro primo figlio in una cittadina medievale in collina, si percepiva che tempi difficili si stavano avvicinando.
Quella domenica mattina d’estate soffrivo accanto a mia suocera Franca per mia moglie Barbara nella stanza all’ultimo piano del piccolo ospedale che si ergeva tra le colline marchigiane e forse accordandosi con il passo rilassato del mondo di fuori, il bambino non ne voleva sapere di venire al mondo.
Come in un dramma ottocentesco, Franca, (mia suocera) sventolandosi con un elegante ventaglio di seta quasi fuori luogo, tentava inutilmente di dissipare l’opprimente caldo di luglio. Gli uccellini cinguettavano e trotterellavano sulle tegole di terracotta del tetto di fuori mentre la figlia, stranamente non preoccupata per le contrazioni, giaceva sul letto a due piazze persa in pensieri da neo mamma.
Come granelli di sabbia attraverso la clessidra, i minuti scorrevano lenti. Il padre e la nonna in attesa di tanto in tanto abbozzavano un discorso. Il tempo sembrava aver assunto una qualità amorfa quel pomeriggio come se qualcosa di nuovo fosse sul punto di irrompere in una conversazione spezzata.
Conoscevo ormai Franca da anni. Lei mi aveva visto per la prima volta quando ero un ragazzo di 22 anni uscito da poco dall’adolescenza e spesso mi aveva trattato con affetto, come se fossi il suo quinto figlio. Donna energica, curiosa ed intelligente noi due parlavamo spesso e lei mi ascoltava con interesse. Sembrava strano, perciò, che lei non avesse mai accennato alla vicenda di guerra di suo padre, morto molto tempo prima, Bruno Calcagnile.
In seguito avrei meglio compreso perchè lei, da donna italiana della sua generazione (come Ladri di biciclette era venuta al mondo nel 1948) pensava che questa storia non sarebbe importata a nessuno. Apparteneva soltanto ai rimasugli del passato, alla massa delle cose tediose della guerra, non era parte del presente, le sembrava quasi irrilevante.
Con la nascita imminente io le domandavo della sua famiglia defunta sia da parte di madre che di padre. Fu durante scampoli di questa conversazione che lei allora mi raccontò di suo padre Bruno. Di come era stato fatto prigioniero in Germania durante la guerra e della sua liberazione dal campo, di una bicicletta rubata con la quale in qualche modo era riuscito a ritornare in Italia dalla sua famiglia.
Venendomi improvvisamente in mente il caos post-bellico narrato in libri come La tregua di Primo Levi, immaginavo le peripezie che poteva aver incontrato per procurarsi un po’ di cibo ed evitare la ricattura. Ma quando premetti per farmi raccontare la storia da lei stessa, la sua risposta presagì ciò che avrei sentito così spesso tra le persone della sua generazione. “Non so nient’altro. I miei genitori non hanno mai veramente parlato della guerra”. Ma poi aggiunge qualcosa di diverso. “É morto quando io ero molto piccola ma qualcuno pensava che fosse stato dalla parte dei fascisti e che per questo motivo non avrebbe mai avuto la pensione di guerra che gli spettava”.
Quel giorno fui distratto da altri eventi che mi impedirono di porre ulteriori domande su una materia che mi intrigava tanto. Ma con la nascita del nostro primo figlio (due gemelli sarebbero seguiti due anni dopo), il mio sangue era irrevocabilmente mischiato con il loro. Sentendomi ormai completamente parte integrante di una famiglia italiana, la storia di Bruno (e con essa tanta parte di storia italiana e di Ancona) la sentivo in parte come mia. Solo in seguito, quando veramente iniziai ad esplorare questa vicenda, avrei capito meglio compreso la responsabilità che mi ero inconsapevolmente assunto: spettava a me ora – con l’enorme aiuto di mia suocera Franca e di Anna, sua sorella – contribuire a far luce su questa storia impenetrabile e tramandarla alla generazione seguente.
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Ero arrivato ad Ancona e in Italia centrale per la prima volta quindici anni prima di quel giorno e questo libro è stato in gestazione per più di dieci anni. Ancora, trascorso un quarto di secolo, sono più che mai consapevole di quanto sia impossibile comprendere o spiegare veramente l’Italia o ogni parte di essa. L’offuscamento che seguì la guerra e il processo di anestetizzazione della storia e della cultura dell’Italia moderna avrebbero reso questa impresa ancora più complessa.
Questo periodo travagliato riguardava essenzialmente i due decenni a partire dall’invasione dell’Abissinia proprio quando Bruno stava completando la prima parte del servizio militare nel 1935, per estendersi ai periodi della guerra e dell’immediato dopoguerra fino alla sua morte prematura a metà degli anni cinquanta. Avrei potuto trovare pochi racconti in questa rete intricata più rappresentativi della storia di Bruno – e della mia nuova famiglia italiana. Ad ogni punto sembravano riflettere misteriosamente l’ampia trama di quei tempi straordinari.
Durante gli 11 anni di stesura del libro il mondo sarebbe cambiato profondamente ed il ricordo, nonché la percezione della seconda guerra mondiale, andò in molti modi affievolendosi. Anche questo mio tentativo di ricostruire una trama intricata mi avrebbe condotto lungo un sentiero tortuoso – attraverso la regione italiana settentrionale che era appartenuta all’impero austro-ungarico, verso Albania e guerre vile nei Balcani e in Russia, ad un campo di lavoro vicino a Lipsia pesantemente bombardato nel 1945, ad una Ancona post-bellica funestata e impoverita e infine ad un incidente tragico, quasi ridicolo, 10 anni più tardi.
Ma ancor più mi avrebbe regalato un personale inatteso apprezzamento della generosità della mia nuova famiglia italiana e della loro città nativa Ancona, degli straordinari talenti ed umanità che sembrano sempre covare dietro la gentile facciata della vita di tutti i giorni in Italia.
Translation by Nicoletta Talevi